n.b. il condor è gentilmente offerto da Google ...
Una mattina di sabato pigra.
Una strana aria come di pioggia, il cielo chiuso, 88% di umidità. Strano, insolito.
Poi, d’improvviso, il cielo si apre, si alza il vento, splende il sole.
La galu torna dalle sue due ore di lezione del sabato mattina e mi dice “preparati che andiamo a Todos Santos”
Ma… adesso?
Adesso.
Va detto che prima mi aveva telefonato preannunciandomi che stava per acquistare un safari nel deserto per una cifra irrisoria per … adesso.
Poi i posti erano finiti (e visto che stavo parlando con un mio “simpaticissimo” amico italiano che mi raccontava dei denti dei varani, del come non si debba urlare se senti un serpente ..) e quindi safari abortito.
Vestiti, muoviti, vamonos.
Prendi la macchina fotografica, un litro d’acqua e metto le ciabatte da mare (a gentile richiesta) e deciso che, sì, vaffanculo mi metto i calzoncini corti.
Ma chi mi conosce? Ma chissenefrega se ho due gambe da prosciutta? Ma che mi importa?
Sto comoda?
Basta. Mi basta. E basta.
Perché ho un paio di calzoncini corti?
Perché li ho trovati taglia ballena (qui si dice così) a papiniano ad un euro ed anche di una buona marca 100% cotone e mi sono detta che un giorno o l’altro avrei potuto avere l’occasione di metterli.
Senza grande convinzione. E li ho buttati in valigia così come per altre cose che si “portano a cambiare aria” e invece sono stata a mio agio tutto il giorno. Come una regina.
La jeep della galu ha appena rifatto le sospensioni (qualsiasi cosa questo voglia dire).
Questo ha ridotto l’impatto delle strade che abbiamo dovuto percorrere nella nostra gita di ieri.
Meno male. Altrimenti adesso avrei delle nuove tonsille, con le ovaie che erano schizzate verso l’alto …
La carrettera che porta da Cabo a Todos Santos è una strada scavata nel bel mezzo del deserto.
La stanno rifacendo. Sta per diventare una strada a 4 corsie con tanto di spartitraffico.
Per il momento è un cantiere pieno di deviazioni, sterrati, doppi sensi improvvisi e segnaletica a terra mancante e sostituita da sassi. Giuro!
La strada nel deserto è “a toda madre” (sostituto locale per bellissimo che ormai dico tipo litania o mantra) oppure “padrissimo”!
E’ incredibile. Non sai descriverlo in maniera sufficiente, esauriente, emotiva.
Devi solo viverlo e sentirlo. Ma non sentirlo nel senso inglese di feeling. Lo senti addosso, dentro, nelle orecchie, negli occhi, sulla pelle.
Guardi intorno ed è immenso. Più immenso di quanto si possa immaginare uno spazio immenso.
In lontananza, molto in lontananza, le sagome della Sierra Madre. Enorme, fiera. Dura.
Questa terra è dura, durissima. Inospitale, capricciosa, resistente. Indipendente. Fiera. Indomita e indomabile nel suo cuore più interno.
E cactus cardones a perdita d’occhio, tanti, con decine, centinaia di bracci, fioriti. La sterpaglia, la sabbia.
Denso, intenso, pieno. Nell’immensità di quel vuoto.
La strada si inerpica su avvallamenti e collinette.
Quindi ti arrampichi su una salita tutta beige e sulla cima, proprio sulla punta, prima di iniziare una discesa altrettanto aspra … ti si apre la bocca ma non riesci ad emettere un suono. Solo una specie di singulto, un sospiro, un naturale “oooh” di meraviglia che però dici solo con il fiato che ti manca.
Forse un po’ come sulle montagne russe.
Ti si aprono panorama inaspettati, inimmaginabili.
Dura, una terra dura eppure con colori di appartenenza. I colori della appartenenza alla terra stessa.
Ti senti un po’ fondere insieme a tutto questo splendore.
Mentre sballonzoli, prendi buche, schivi sassi.
I condor che volano bassi, fieri, maestosi, regali. Passano e volteggiano.
Impossibili da fotografare.
In un angolo ho visto un condor che scendeva a picco e si posava su una roccia. E ce n’erano altri!
“Galuuuuuuuu guarda i condor che si sono posati”
“Formica, sono avvoltoi!”
Urca sì. Sono avvoltoi sì e sono pure brutti. Visti da vicino fanno paura. Con quella testa spelacchiata che sembrano tacchini. E, sapendo che si cibano di carcasse, ti fanno un po’ schifo a prescindere.
Vicini, davvero vicini.
I condor ti volano vicini e aprono quelle enormi ali che terminano con una specie di ventaglio aperto di piume singole che piega come le piccole alette degli aerei.
Un’altra salita e all’improvviso … l’oceano.
Una spiaggia bianca e lucente, onde alte, altissime. Giù in basso. Mentre tu dall’alto del deserto lo guardi e ti pare una immagine aliena.
Eppure è così perfetta incastonata come una gemma nella cornice del deserto.
La vedi e sembra una cartolina.
Mentre la macchina macina chilometri, sbuffa, sobbalza e solleva polvere.
Un’ora e mezzo di viaggio con gli occhi che quasi dolevano nel tentativo di vedere tutto, di incamerare tutto, di abbracciarlo, divorarlo, per non dimenticarlo.
Todos Santos. Tutti i santi è un posto che si affaccia sul pacifico dove gli hippies surfisti si sono stabiliti in un arco di tempo di una trentina d’anni.
La struttura ha più di cent’anni ed è stata il centro della rivoluzione di Pancho Villa ed Emiliano Zapata.
Sto scoprendo sempre più donne importanti per la storia messicana.
Devo fare qualcosa. Devo imparare tutto. Lo farò.
Todos Santos è anche detto il paese magico, el pueblo magico.
Pare ci sia una energia speciale e che tanti fantasmi, spiriti, lo abitino e, chissà, forse lo protegga.
In realtà Todos Santos è un’oasi nel deserto.
L’unica oasi della costa pacifica. Sul mare di Cortez ce ne sono di più.
Infatti quando sei in dirittura d’arrivo ti si aprono panorami verdissimi.
Ma verdi verdi verdi. Interrotti solo dal rosso dei peperoni e peperoncini che coltivano a perdita d’occhio.
Sino ad oggi ho appreso di venti tipi diversi di peperoncini e peperoni. Ma son sicura siano almeno il doppio.
Ho visto piante di basilico con un profumo inebriante e girasole grandi come padelle.
Palme e palme a perdita d’occhio. Come nelle oasi dei cartoni animati.
E bouganvilla di tutti i colori. Nella mia ignoranza conoscevo solo quella fucsia di cui è pieno il paesaggio ligure.
Qui c’è fucsia, rosa, rosa tenue, arancio, gialla, bianca che vira su altri colori. Ed è ovunque.
Almeno a Todos Santos è ovunque.
E qui c’è il famoso Hotel California. Un albergo. Niente di speciale, bello come tanti alberghi in stile messicano sono, con il patio, la fontana, le poltrone di legno, di midollino, con le maioliche che qui chiamano azulejos, anche se non sono azzurre. Perché qui una volta l’azzurro era il colore dominante.
Come il mare. Come gli occhi della galullo.
Ha gli occhi più azzurri da quando è qui.
E’ felice, si vede. Ama questo posto e questi posti la amano e la accolgono. E’ il suo posto. E si vogliono bene. Vederlo con i suoi occhi enfatizza il bello!
Visto che la galullo ha una amica cretina che si incanta davanti a miti e leggende siamo andate subito all’Hotel California.
Li accanto, su un muretto, un ragazzo con dei rasta lunghi come cime di navi e le orecchie con i buchi talmente divaricate che aveva due conchiglie intere infilate in quello che ormai più che un buco era una sorta di finestra nel lobo.
Sul muretto pietre con fogge di animali, madreperla incise. E alcuni anelli d’argento.
Rozzi, no non rozzi irregolari. Affascinanti.
Un anello piccolo (strano per me, stranissimo) con una minuscola pietra rosa al centro ha attirato la mia attenzione. La pietra era un opale rosa che al sole luccica di mille riflessi. La misura era incredibilmente la mia. Perfetta.
La galullo dal nulla ha deciso che quello era il regalo del mio compleanno. Un compleanno. Non importa quale.
Mi ha commossa ed ora ho un anello magico, di pietra magica, fatto in un posto magico che mi ha regalato la mia amica felicemente messicana.
Sono molto contenta.
Tour dell’Hotel California. La sensazione di essere in un posto che tutti conoscono.
Il quadro del fantasma che si dice abiti da sempre l’hotel.
L’emporio che ha fatto del brand “Hotel California” un commercio per turistas. Come me. Che ci sono caduta ma poco poco. Ho preso un magnete con una vecchia foto dell’albergo virata seppia.
Il posto è pieno di gallerie d’arte, di artigianato, pitture, sculture.
Nel centro della piazza campeggia una sagoma di ballena irregolare, bruttarella. Sinchè non ti avvicini e non ti rendi conto che è scavata in un pezzo di legno unico.
E diventa bella, affascinante.
Ogni casa, ogni vetrina ha una statua di legno. A proteggerla.
O forse a giustificare ai turisti un viaggio in un posto così difficile da raggiungere.
Visto un negozio di souvenir, di artigianato, li hai visti tutti.
Ma non a Todos Santos. Perché qui fanno proprio quadri, assemblano pezzi di vecchie cose per farne delle sculture. Scavano sedie e panchine nei tronchi degli alberi.
Colorano le sedie di colori vivaci, ogni gamba un colore. E poi le taggano. Quelle avrei voluto portare a casa.
Le vetrine, i portoni, le porte.
I balconi fioriti. Le case colorate.
Eolici di legno e conchiglie che risuonano al vento.
E poi la fotocamera che, puttana, mi ha abbandonata dopo 70 foto!
Non era in programma di star fuori, di far foto. Non avevo ricaricato la batteria e siccome sono un po’ pollolA pure io (dedicatissimo) non ho pensato di portare la seconda macchina, quella che va a pile.
Da questo punto in poi dovrò imprimere ogni immagine solo nei miei occhi. Ci sono stati dei momenti in cui mi sarei mangiata le mani, ma tant’è.
Abbiamo mangiato alle 16, ora del tutto consona qui) e alle 17 ci siamo avviate per il ritorno.
Passando per sterrati con buche enormi e con grande difficoltà dopo esserci perse tre volte, ecco la meraviglia della meraviglie.
Il posto in cui, mi dirà la galu, quando ci è andata ha deciso che questo era il SUO posto.
Beh chiamala scema!
La playa di San Pedrito. L’oceano, la sabbia.
Una forza enorme, un ruggito forte di onde che si infrangono su onde che rincorrono altre onde.
Lunghe, schiumose e il mare era calmo.
Uno spazio enorme, blu a perdita d’occhio.
La spiaggia chiara, sabbia e polvere di conchiglia.
Piccole meduse di gelatina trasparente e luccicante sul bagnasciuga portate dalla potenza delle onde.
Il sole delle sei di sera. Non ancora rosso ma già di quel giallo forte che si sdraia sul mare e si apre illuminandolo.
Qualche cane con il padrone. Dei surfisti con la pelle seccata, incartapecorita dal sole, i capelli lunghi ormai bianchi perché non son più neppure biondi a furia di sale e sole.
Perfettamente intonati a tutto l’ambiente.
E due coppie.
Lontanissime.
Una verso destra e l’altra verso sinistra.
Che camminano accanto in un’aura di tenerezza nella sera che si preannuncia nei colori e negli odori, i vestiti spostati, sollevati dal vento. Le sagome vicine.
E noi due.
Non è stagione di Surf. Non c’è nessuno.
Troviamo qualche conchiglia.
Tanto tempo fa, tante son le ostriche qui, sulla spiaggia non si trovavano i gusci delle ostriche ma direttamente le perle.
Quelle di cui era ornata la Regina Calafia, regina delle amazzoni azteche e che ha dato il nome alla California. La terra della regina Calafia.
Ne troviamo un paio. Mi dice che torneremo e ne cercheremo di più belle.
Resto lì. In piedi. I piedi nella sabbia. E guardo, in silenzio.
Non servono le parole. Non ci sono parole.
Raccolgo una bottiglietta di sabbia. Una bottiglietta piccola di Corona con il tappo a vite che la galu aveva a casa e le avevano regalato non so più per quale coronA-versario.
E l’ha regalata a me. Per la sabbia di San Pedrito.
Sospiro. Non so fare altro. Oltre a respirare.
Dopo un tempo che non so dire ci muoviamo e torniamo, a malincuore in macchina a sobbalzare cercando tra le dune di sabbia la strada per la carrettiera.
Mi preparo per tornare a casa.
Ma non è finita questa giornata di sorprese.
Poco dopo San Pedrito, sulla carrettera, la galu si ferma in un bar.
Mi dice che è assolutamente da vedere. Si chiama Art & Beer (ma la & è una chiave di sol) e già questo susciterebbe curiosità.
Un posto pazzesco tra cactus, palatas, foto, ombrellini, quadri. Bottiglie incastrate nel cemento.
Non si può descrivere, spero ci sia l’occasione di tornarci e fotografarlo perché davvero ne vale la pena.
Sono tante piccole capanne tipo palafitte costruite dentro e sopra il deserto.
La musica in diffusione spazia tra Diana Krall e musicisti locali.
Ovunque foto del proprietario, un uomo senza età, capelli bianchi lunghi e barba bianca che gli arriva allo stomaco.
Lucine di natale, ombrellini, biglietti da visita di ogni genere incastrati nella paglia intrecciata che fa da muro? Paravento? Porta biglietti? E chi lo sa.
Una passerella di legno sopra i cactus e i rovi che porta ad un palcoscenico sul quale nella stagione alta si fan concerti.
E dalle piccole capanne si vede l’oceano, san pedrito.
C’è anche una terrazza in alto, che si raggiunge con una scala a chiocciola in ferro battuto.
Una vista incredibile ma in pieno sole. Il vento tira forte, davvero forte.
Ci fermiamo nell’ultima capanna dove c’è una coppia di locali.
Iniziano a chiacchierare amabilmente. Qui si chiacchiera sempre. Tutti ti chiedono come stai e, se rispondi, si va avanti.
Ho capito tutto di quel che si son detti ed han parlato di politica e turismo, di cose accadute.
Due parole mi han fatto ribaltare dal ridere.
Rancherotissimo e tatarabuela.
Il primo è un termine per definire un aMMericano un po’ sbruffone e del tipo texano, macho e anche zarro, la tatarabuela è la trisnonna.
Non smettevo più di ridere.
Il tempo passava e il sole si faceva più rosso.
Ho avuto una vista sul tramonto dritto dentro all’oceano che faceva venir le lacrime agli occhi.
Rosso, nell’acqua dell’oceano, con la vista su quel mare azzurro e di mille blu, la spiaggia bianca. E i cactus, e il deserto.
E il tramonto veloce che si adagiava dentro al mare.
Come Venere al contrario.
E poi quella luce rosa, rossastra …. E una sorta di melanconia, come un suono di milonga.
La voglia di avere qualcosa di più. Il romanticismo che senti invaderti e devi tener dentro.
Siamo ripartite che ormai era buio pesto.
L’aria tirava quasi fredda. La strada era lunga.
Il deserto è buio. Ma non buio. BUIO.
La strada era illuminata a giorno dalle nostre luci e da quelle degli altri fuoristrada, pickup, hummer e la segnaletica per i lavori.
Il resto era buio. A perdita d’occhio.
Così la galullo ha fermato la macchina.
In mezzo a quel deserto.
Tra la sabbia e i cactus. E a luci spente …. Un miracolo.
Un cielo stellato pieno zeppo di stelle come ricordo solo di aver visto, ma molto diverso, al circolo polare artico in pieno inverno.
La sensazione di essere minuscola in un universo gigantesco e potentissimo.
Lucciole luccicanti nel nero più nero che si possa immaginare.
In un silenzio totale.
Che azzittiva e parlava.
La voce delle stelle.
Ho sentito la voce delle stelle.
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