sabato 21 maggio 2011

La torre di babele

Vicina di casa della galu è una ragazza (sì ragazza ha la nostra età quindi è una ragazza) di nome Inès.
Ci credete se vi dico che parla più veloce di me? Ebbene sì. Emette una quantità di parole/minuto che non si riescono quasi a contare.

Inès (detta anche lo strèss) parla inglese e spagnolo, la galu parla italiano, inglese e spagnolo, il non parlo lo spagnolo. Totale: io e la galu parliamo in italiano, la galu e inès parlano messicano, inès ed io parliamo in inglese.
Detto questo quando siamo tutte e tre nello stesso posto sembra di essere sulla cima della torre di babele. Ci si confonde e l’altra sera la galullo ha fatto un discorso piuttosto consistente ad inès che dapprima non se l’è filata per niente e poi la guardava strano.
Il bello è che la galu si aspettava una risposta al discorso.
Sinchè non le ho detto che le aveva parlato in italiano.

Questa è la nostra privatissima torre di babele condominiale.

Questo posto offre delle visioni che non ti aspetti. Io non mi aspetto.  Con molta ingenuità.
Per esempio mi sono accorta che nei negozi di sigari le donne (anche qualche uomo ma rarissimo) arrotolano le foglie di tabacco. Fanno i sigari.
Le ho guardate per un po’ l’altro ieri. Ma non ho osato fermarmi lì a fissarle.
E’ affascinante con che grazia veloce comprimano le foglie una sull’altra.
E il profumo dei sigari, spenti per la carità!, è meraviglioso.
Le vedi trinciare le foglie, dar loro una forma che ignoro. Ho chiesto alla galu se secondo lei posso fotografarle e mi ha detto semplicemente di chiedere il permesso.
Lo farò, nei prossimi giorni lo farò.

Sto comperando piccole cose, quando le trovo che mi piacciono o “mi chiamano” le compero. Facendo lo slalom tra i venditori e i negozi e i butta dentro di bar e ristoranti.
Devo stare attenta al peso, però. Non il miiiiiiooooooo! Delle valigie.
Già devo pagare un bagaglio aggiuntivo, l’extra per chilo vorrei proprio evitarlo.
E così ieri ho lasciato, a malincuore, una conchiglia grande e piatta dentro alla quale un signore di quei vecchi senza età, dipingeva paesaggi messicani. Seduto sul bordo di un piccolo scalino sul marciapiede.
Con le sue conchiglie lucidate e sparse a far asciugare il colore.
Non era tanto la bellezza dell’oggetto ma la tenerezza di quell’immagine.
Il modo delicato eppure forte con il quale teneva in mano la conchiglia sulla quale stava lavorando.
Lo svolazzare del pennello tra i vari colori.
Ma le conchiglie pesano tantissimo e vorrei portarne qualcuna dalla spiaggia di San Pedrito, sull’oceano, vicino a Todos Santos quando ci andremo a giugno.
La galu ne ha in casa di bellissime che usa come porta gioielli, porta sapone. Vorrei portarne a casa, portare un pezzo di questo oceano sperando che si trascinino appresso anche un istante di quel ruggito che l’oceano fa quando si rompe sulla spiaggia.
Sarà lì che farò il bagno nell’oceano.
E poi andremo a visitare Todos Santos, il paese degli artisti, dove c’è il vero Hotel California cantato dagli Eagles. La galu mi ha già annunciato che sarà una delusione, sarà comunque emozionante.

Sto diventando lenta nell’aggiornare il blog, lo so. Ma ho tante cose da fare, vorrei riuscire a far tutto ma non ho voglia di sforzarmi, di forzare.
Dormo quel che mi serve, mi riposo se voglio e mi lascio incantare da colori o pensieri.
Ho contatti quotidiani con due persone tramite skype (oggi soprannominato skyminchia in una crisi di stupidera epica) e qualcuno meno frequente con altri.

Questa cosa della tecnologia, di come ci si possa parlare attraverso il mondo semplicemente facendo click su un tasto mi lascia senza parole.
Sono stata fortunata. Sono nata in un periodo dove non c’era quasi nulla e son cresciuta mentre inventavano e perfezionavano tutto.
Voglio dire potranno rimpicciolire ancora qualcosa ai minimi termini ma immagina veder passare la televisione dal bianco e nero e con un solo canale, poi a due, faticosamente a tre sino alle centinaia e poi le migliaia.
L’arrivo dei videoregistratori, costosissimi e per pochissimi, e le videocassette. Le videocamere, una rivoluzione comparata con il super 8.
I primi telefoni “portatili” erano delle valigie 24 ore pesanti come un pezzo di piombo.
Le auto con il telefono portavano un’antenna della grandezza di un’asta portabandiera.
I CD che dapprima ho guardato con grande sospetto e bollato come “eccessivamente algidi” a causa della innaturale perfezione del suono.

Ricordo lo studio di registrazione della Fonit. Ricordo i master. Ed erano pizze enormi di nastro. Nastro fisico. Che si tagliava con un taglierino e si univa con il nastro adesivo.
Mi ricordo quando guardavo incidere le “lacche” del vinile.
Dal nastro una macchina guidava un braccio con una punta che scavava quella pasta rossa e spessa.
I file MP3, i lettori, gli aipod, gli aifon, gli aitutto.
Già era rivoluzionario il walkman. Quello con le audiocassette. Che ogni tanto si incastravano e per riavvolgerle serviva una bic. Una bic non un’altra perché la bic aveva le scanalature che si inserivano perfettamente nei dentini della cassetta.
Il lettore CD portatile aveva questo problema del saltare con il movimento. Quindi non allineato al bisogno che lo rendeva necessario.
E le tonnellate di pile che son servite per alimentare tutto questo.
Ora si ricarica direttamente dal piccì.
Le comunicazioni, i viaggi, la posta elettronica …. Ma perché mi sono infilata in questo discorso?
Boh!
Ah sì, Skyminchia.
Insomma parlare con mio figlio con la webcam accesa dall’aereo Atlanta – Cabo mi ha davvero dato una scossa elettrica!

Qui è tutto più lento.
Anche se tra i cactus si ergono parabole grandi come dischi volanti.
Però ci sono ancora i telefoni per strada. Tanti. E le persone li usano.
Anche se poi vedi le bambine di 7 massimo 8 anni uscire da scuola con in mano un telefonino ultimo modello.

Un paese pieno di opposti, di contrari.

Il giorno dopo il plenilunio c’era vento forte. Tanto forte. Il sole giallo giallo e un vento forte.
La radio che tutte le mattine ascoltiamo mentre come una macchina ben oliata sbrighiamo le faccende del mattino aveva diramato un avviso di attenzione per i surfisti. Il mare non era come sembrava. C’era una cosa che credo abbiano chiamato “mare morto” apparentemente calmo in superficie e mosso sotto il pelo dell’acqua e rischio di cambiamenti improvvisi e repentini.

Avevo deciso di andare in spiaggia, passato il color rosa maiale illuminato dell’ultima “cottura”.
Il sole batteva forte ma il vento tirava allegramente potente.

Sono arrivata in spiaggia e le onde avevano un aspetto decisamente diverso dalle volte precedente. Più grosse, più alte, più spumose e tanto, tanto più lunghe.
Arrivavano sino a più di metà spiaggia per poi ritirarsi in un secondo.
Schiuma bianca e beige piena di quella sabbia spessa che è tipica di qui.

Come al solito mi sono subito buttata in acqua. Le correnti erano forti, andare in una direzione decisa da te e non dal mare era pressoché impossibile e l’acqua da nulla arrivava fonda in un secondo.
Le onde erano piene di sabbia tanto che dopo il primo tuffo avevo i capelli pieni zeppi.
Non c’era verso di sciacquarsi, perché arrivavano onde in continuazione, una dopo l’altra, una sopra l’altra.
Quindi l’ho data vinta al mare e mi sono seduta a metà di quello che normalmente sarebbe stato il bagnasciuga.
Mi son seduta tra l’acqua e la sabbia e mi son lasciata trasportare avanti e indietro dalla forza delle onde.
Facendomi uno “scrub” totale alla sabbia a grana grossa perché non c’era modo di resistere alla forza di quelle onde.
Quando ne arrivava una da seduta mi faceva fare una giravolta e poi mi trascinava a terra. Ma solo per un secondo perché già mi stava risucchiando verso il mare. Con una forza inarrestabile.
Ho provato ad immaginare cosa debba essere un’onda di questo genere alta 3, 5 o dieci metri come durante uno tsunami.
Ora io non sono un fuscello e quello onde saranno state si è no mezzo metro. Ma probabilmente sto ancora eccedendo. Non ne ho idea.
Eppure mi hanno sbatacchiata in su e in giù e di lato come han voluto.

Mi divertiva, era come una giostra.
I pellicani, forse incoraggiati dalla quasi totale assenza di barche e di moto d’acqua, pescavano molto vicino alla riva. Li ho guardati pescare e riempirsi quella strana borsa del becco con pescioni anche belli grandi.
Il rumore del mare era forte.
La sabbia graffiava ma non mi dispiaceva.
Ho perso il senso del tempo e son rimasta lì più di due ore.
Questo l’ho scoperto guardando l’ora sulla via del ritorno ma, soprattutto, dal colore fucsia che ha preso la mia pelle durante il pomeriggio e per i due giorni seguenti.

Mi sono alzata da quella specie di fossa di sabbia e mi son sentita tirar giù la mutanda del costume.
Come fosse stata pesante.

Alla faccia di jovanotti che si canta le tasche piene di sassi io avevo la mutanda piena di sabbia.
Ma piena. Sembrava un pannolone da bimbo piccolo.
Mi sono buttata in mare, cercando di stare nell’acqua pulita.
Era alta quindi non erano facilissime le manovre di asportazione del “pacco di sabbia”.
Uscendo sono stata buttata a terra da un’onda particolarmente grossa. Ho bevuto (ho già detto che qui l’acqua è salatissima?) un po’, mi son riempita anche  gli occhi di sabbia.
E daccapo il costume “ripieno”.
Insomma per dirla piatta sembrava che me la fossi fatta addosso.
Poi mi sono accorta che avevo anche una sorta di pushup con imbottitura di sabbia nel reggiseno.

Ho inutilmente provato ad entrare in acqua e toglierla. Più di una volta.
Poi mi sono arresa e son tornata a casa con le mutande piene di sabbia e il reggiseno imbottito.

Quel che ho capito solo una volta tolto il costume è che la trama doppia interna del costume di è farcita di sabbia. Ho inutilmente lavato, strusciato, strizzato, sfregato per un pezzo.
Ho tolto la maggior parte di tutta quella bidonata di sabbia che mi sono trascinata a casa.
Ma il costume è lì, sul mobile, ormai asciutto e con una imbottitura sul culo e due sulle tette.
Per fortuna ne ho portato più d’uno.
Di questo nero, però, al momento non so che fare.

Scucire, vuotare e richiudere? La trama è sottile, non so come potrebbe finire l’esperimento.
E mentre non so che fare faccio alla messicana: non faccio niente e ci penserò.
Quando?
E chi lo sa?
Direi mañana!

1 commento:

  1. sono tanto felice per te e tutto fantastico e tu sei grandiosa e tutto cosi magico che sono travolta da questa poesia avventurosa spiegare quello che provo e'impossibile e quindi non resta che dirti che ti voglio un mondo di bene lorella

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