lunedì 13 giugno 2011

OceanoMare


Penultimo weekend. Ormai il conto alla rovescia si è ribaltato e i giorni si sgranano da soli su un rosario che non vorrei vedere: si torna a casa.
Mancano tredici giorni. Solo? Ancora?
Che importa alla fine?
Vorrei non pensare a nulla della realtà quotidiana, del rientro, del viaggio, delle valigie. Ma più di tutto vorrei non pensare al “domani”.

Flash della vita solita si affacciano. Li scaccio come mosche noiose.
Ho ancora tante cose da fare qui. C’è un nuovo plenilunio con le sue sorprese. Il cinquantesimo della galu. Il solstizio d’estate da celebrare in spiaggia. L’appuntamento con lo snorkeling sabato prossimo.
Ma l’orologio ticchetta e i foglietti con i giorni volano via.
Qualcosa è cambiato dentro me in questo viaggio, in questi giorni, in questo posto, in questo tempo.
Non so esattamente cosa ma sa di buono.
Credo sia qualcosa di duraturo che possa resistere al ritorno. Farò in modo che lo sia.

Oggi l’oceano a San Pedrito.
L’oceano.
Immenso di una immensità che si può solo contemplare e non si riesce a descrivere.
A perdita d’occhio.
E se ti giri i cactus e il deserto. E la sierra.
Sulla sabbia i passi affondano.
Intorno solo spazio e niente altro.
Acqua e vento.
Non c’è nessuno. Una coppia è arrivata con noi e se n’è andata dopo pochi minuti.
Siamo sole in questo spazio immenso.
Il silenzio è d’obbligo. C’è la musica, il ruggire dell’oceano.
Quella schiuma che sembra bollire e che lascia la sabbia liscia, immacolata, cancella tutto nel ritorno dell’onda.
Mi siedo a riva dove l’onda arriva e porta via.
Resto lì a guardare il mare, quell’immenso blu che arriva e se ne va.
Ad un tratto mi accorgo che la galu mi è accanto con la fotocamera.
Ma sì ma chissenefotte!
Sì sono grassa, sgraziata, non so fare pose sexy ma decido che non me ne frega nulla e gioco con l’acqua e la galu.
Io faccio la modella e lei Newton.
Ridiamo perché proprio io la cattiva e la sexy non le so fare. Nemmeno per gioco, nemmeno per poco.
Lei va a fare una passeggiata sulla “sua spiaggia” ed io resto lì sull’acqua. Senza poter davvero entrare. E’ pericoloso. La corrente troppo forte.
Siamo sul Tropico del Cancro ma dalla parte opposta.
Grido all’oceano, urlo come Liza in Cabaret perché tanto qui non c’è nessuno. Quel che succede qui resterà qui.
Scrivo cose sulla sabbia e l’oceano se le porta via.
Canto a squarciagola Maybe this time.
Ho sabbia ovunque, ma non importa.
Sono felice di essere qui.
Sono felice di essere.
Sono felice.
Ed è una sensazione così intensa, seppur sfuggente, da lasciarmi senza fiato. Da darmi quasi il capogiro.
Il sole è caldo, tanto, ma la brezza dell’oceano è più forte. Vince su tutto e ti lascia in pace sdraiata lì senza fastidi, senza fretta.
Guardo il mare infinito e mi tornano in mente le parole di Baricco.
Ho sempre pensato a me come Elisewin. Ma nel mio ricordo mi son sempre e solo fermata al viaggio “verso” il mare. Quel pezzo di rara poesia
“Cosi Elisewin scese verso il mare nel modo più dolce del mondo […]

Ma Elisewin non si ferma lì. Non solo arriva al mare. All’oceano. Lo vede.
Tutt'e due immobili, gli occhi fissi su quell'immensa distesa d'acqua. Da non crederci. Sul serio. Da rimanere li una vita, senza capirci niente, ma continuando a guardare. Il mare davanti, un lungo fiume alle spalle, la terra, alla fine, sotto i piedi.
E loro, li, immobili. Elisewin e Padre Pluche. Come un incantesimo. Senza neanche un pensiero in testa, un pensiero vero, solo stupore. Meraviglia. Ed è dopo minuti e minuti - un'eternità - che Elisewin, finalmente, senza staccare gli occhi dal mare, dice:
Ma poi, a un certo punto, finisce?


 Ecco cosa ti chiedi di fronte al'immensità dell'oceano. Finisce? E dove finisce?
Forse non finisce. Forse è possibile che non finisca. Forse si può portare l’oceano con sé. Dovunque si vada. Portare con sé questa sensazione di tutto possibile, di infinito e di enorme. Di possibilità, di chance, di leggerezza, di vigore, di quiete tra i ruggiti. La sensazione di appartenere a qualcosa, a qualcuno anche se non ha volto. Non ancora. O non più. Ma che sino all’ultimo respiro c’è un’onda, un’altra.
Perché è il moto perpetuo e non esistono pause. Nel bene e nel male.

Da una magia ad un’altra siamo andate a Todos Santos, che è lì vicino ed abbiamo pranzato all’Hotel California. In un’aria magica, sospesa. Impalpabile.
Una giornata che si sta chiudendo nella quiete della casa, con una leggerissima musica di sottofondo, solo per accompagnarci al sonno.

E quel che oggi ho portato via dall’oceano, insieme ad una conchiglia bucata che diventerà una collana che rappresenti questo viaggio nel tempo, questa immensa voglia di vivere. Comunque. Ad ogni costo.
Come diceva Elisewin.

Io la voglio questa vita la voglio da impazzire, dovessi impazzire da morire è vivere che voglio

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