giovedì 9 giugno 2011

La Sierra e l'estuario


Domenica mattina dopo una serata lunga e piacevole.
La padrona di casa, Milù, ci ha lasciate dormire.

Ci vestiamo belle leggere, il caldo inizia a farsi sentire pesantemente, e partiamo alla volta di Santiago.
Il nome porta alla mente Compostela e sa un po’ di pellegrinaggio. Invece scopro che è una località interessante e piena di cose belle da vedere.

Il viaggio sono tre ore verso e attraverso la Sierra della Laguna.
Il panorama è sorprendente, in continuazione, dovunque. Ogni curva cambiano i colori, gli aspetti, le piante, i cactus. Ogni salita presuppone un’apertura con la visione di qualcosa di bello e certamente diverso dal precedente.
Santiago è un’oasi, nella Sierra, nel deserto ed ha un Canyon detto della Zorra (la volpe) e, come se non bastasse, ha una cascata di acqua verdissima dentro al Canyon.
La tenuta da viaggio, per questo tipo di viaggi è davvero inguardabile. Sono inguardabile.
Con i pinocchietti, o capri se preferite, una canotta e le infradito. Più gli occhiali da sole e l’immancabile cappello che già conoscete.
Una americana classica o una tedesca. Il bianco della pelle e la facilità di arrossarsi mantiene tutti e due i profili possibili. Sicuro sono una turista.
La galu è vestita uguale ma lei è figa ed elegante io sembro una turista classica. Che vuoi fare?

Mi dice: guarda quella palla lì eh? Non te la perdere. Perché lì passa il tropico del Cancro.
Vedo di fronte a noi il cartello Tropico del cancro e le strillo di fermarsi.
Lei inchioda, tirandomi giù a posteriori tutti i santi dal paradiso, mi fa fare “sta cazzo di foto” e mi porta alla palla.
Un sole spietato in mezzo al NULLA. Più totale ed assoluto.
Se ci pensi fa anche un po’ paura.
Sei nel mezzo del nulla, strade poco, davvero pochissimo battute. I cellulari non prendono. Non c’è verso. Non c’è niente. Luce, ripetitori, niente.
Se ci pensi forse neppure ti ci avventuri.
Però ogni tanto mi guardo intorno e penso che restare fermi lì, qualunque sia il “lì” in questione, sarebbe un incubo.
I finestrini non si possono tenere aperti. Lo fanno i fighi dei film. Anche sulla strada asfaltata si alza tanta di quella sabbia e polvere del deserto da poterti riempire due volte occhi e polmoni.
La jeep ha l’aria condizionata. E’ una macchina agèe ma fa il suo dovere con onore.

Stiamo andando allo zoo di Santiago. Lo zoo fa tristezza, da sempre. Scoprirò che questo è più triste di altri. Perché gli animali hanno gabbie piccolissime, soffrono tremendamente il caldo e non paiono ben curati. Anzi si stenta a credere che lo siano. Curati.
Era l’occasione per vedere la fauna locale che vorrei anche evitare di incontrare. Vedi il cascabel.
Il cascabel è un nome carino per definire il serpente a sonagli messicano.
Che è così carino da avere un solo sonaglio e, di conseguenza, essere molto più silenzioso di quello a due o più sonagli. Quindi ti becca quasi senza che tu te ne accorga.
Mi conforta sapere che la galu, nei suoi dieci anni qui i serpenti li ha visti solo proprio dove mi sta portando ora. In questa sorta di zoo.

E’ tipo l’una, sole a picco. I serpenti stanno dormendo. Meglio così tutto sommato. Mi fanno ribrezzo anche fermi avvoltolati.
Un pitone gigantesco, dorme pure lui.
Animaletti curiosi, alcuni simpatici altri troppo provati per poterne dire qualsiasi cosa.
Le piante sono bellissime. I mango sono ovunque qui. I cactus anche e di tantissimi tipi. E sono tutti in fiore.

Anatroccoli, tartarughe d’acqua dolce. Un sacco di struzzi, un saaaaaaacco di struzzi. Si vede che si riproducono. Oh sono alti tanto!

Davanti ad una gabbia scoppio a ridere: ci sono delle galline che invece delle piume pare abbiano addosso del peluche. Bianchissime e super fluffy. Buffe.
Le palome blanche, in una voliera troppo troppo piccola.
Un piccolo falco, arreso, fermo, in posa.
Un pavone reale bianco, bellissimo ma triste.
La maggior parte delle foto che ho fatto durante la visita dello zoo le ho cancellate una volta a casa, ingradirle mi ha permesso di vedere con occhi più crudi la tristezza della loro condizione ho quindi preferito non metterle in mostra.
C’era un leone che credo avesse posto per fare 3 passi.
Insomma, non sono mai stata pro-zoo. Vado avanti in questo modo.

Andiamo a mangiare nell’unico ristorante nel raggio di non so quanto, ma tanto.
Ci riprendiamo un po’ mangiando fuori all’ombra con il solito sottofondo di musica messicana.
Mi mancheranno queste cose.
Questa semplicità di vivere senza orpelli, senza fronzoli e spesso, molto spesso, difficile. Per chi sta qui. Per quelli che vedi lavorare. Un po’ per tutti.
Ho visto e fatto tante cose.
Forse più di quelle che ho fatto in una vita intera.
Mi mancheranno le piccole cose, quelle che i locali non sanno di avere perché non hanno idea che ci possa essere qualcosa di diverso.
Il non dover mai mettere le scarpe. Credo neppure esistano qui a parte per chi deve utilizzare una divisa per lavorare.
Il mangiare sempre e solo all’aperto, tra le piante, la sabbia, la terra, sotto tetti di paglia o grandi ombrelloni o specie di pergole.
I tavoli spartani, un piatto solo, le posate buttate lì.
Eppure è tutto così gioioso, semplice, naturale.
Sicuro il mio essere turista rende romantico qualcosa che spesso può essere pesante alla lunga.
Certo due mesi ininterrotti di sole, di cieli blu e di aria, in tutti i sensi, renderanno difficile il rientro a Milano.
Tornare in quella casa piccola ed affollata, di cose più che di persone. Dovrò rivedere molte cose al mio rientro. La prima in assoluto è alleggerire. Alleggerire tutto intorno.
Qui sono stata molto tempo sola e non sono uscita moltissimo. Voglio dire ho fatto un sacco di cose ma pensando ai due mesi sono state molto diluite.
Eppure mi sono goduta ogni istante di questa solitudine e di una casa solo per me.
Del poter pensare e scrivere senza sentire niente e nessuno. Uscendo a guardare il sole o il vento in qualsiasi momento.
Ascoltando i rumori e gli odori sconosciuti.
Imparando ad amare questi muri bianchi ruvidi e bugnati. Questo legno.
Le prime ore del mattino con la radio che passa le notizie locali. Quale stazione? Ce n’è una quindi non c’è imbarazzo.
La colazione e poi la galu che esce.
La Milù che esce e la porta di casa che rimane aperta aspettando il suo ritorno.
A quell’ora, le otto circa, io sono al tavolo sbirciando tra le cose “mattutine” italiane che ormai sono antiche perché “di là” è già pomeriggio inoltrato.
E sul tavolo con il sole che mi batte sulle mani e sul viso leggo e scrivo.
Il lunedi ci sono i ragazzi che nella terra del giardino della casa accanto (si nella terra non c’è prato,  non c’è nulla, solo terra beige) si esercitano nella giocoleria e nell’equilibrismo.
Li ascolto ridere, sento il profumo dell’erba che si fumano, ascolto uno di loro che tiene il ritmo con un tamburo per regolare gli scambi, i salti, la sincronia dei movimenti.
E’ bello il lunedi.
Ogni martedi invece arriva Olga, soprannominata Santa Olga, che pulisce tutto (TUTTO) e rimette tutto in ordine. Scompigliando le cose.
Riordina persino l’interno del frigorifero.
Ma non vuole nessuno tra i piedi. Quindi il martedi alle 12 e mezza devo uscire di casa e non tornare prima della cinque.
Quindi il martedi sono di passeggio rovente. Perché le dodici e mezza è proprio un’ora del cazzo per uscire, va detto!

Ma ora sono sotto agli alberi nell’unico ristorante di Santiago, il Palomar.
La galu mi dice che dopo mangiato ci avventuriamo per andare a vedere la cascata.
Ecco credo di aver sottovalutato, di non aver dato l’esatto peso alla parola “avventuriamo”. Ma non perché non si potesse fare o sia pentita di averla fatta.
Giusto per sapere cosa aspettarmi.
E non lo sapevo.
Dalla piazza di Santiago … la piazza …. C’è solo la piazza a Santiago e un paio di viette. Punto.
Dalla piazza, dicevo, si passa velocemente ad una strada sterrata.
Sterrata seria. Quindi con sassi, buche e tutti gli annessi e connessi di una sterrata che si rispetti.
E vai.
E vai.
Ed è beige.
E vai.
Non si vede che beige.
Bello il beige …
Oh! Una …. No è solo un passaggio all’interno di una proprietà quindi dobbiamo passare su dei tubi di acciaio messi per terra che coprono una fossa che credo debba essere un dissuasore non so in che occasioni.
Comunque lì lo sterrato è tutto di sabbia. Piano. Con cactus e sterpaglia ai lati. Insomma un’autostrada, paragonato a prima.
Ecco lo sterrato è bello … e a perdita d’occhio non si vede altro.
Dopo un’eternità troviamo un passaggio con i tubi come il precedente forse siamo arrivate … ma no!
Altra Paris-Dakar in mezzo alla sabbia e sotto il sole cocente.
L’acqua che era partita da Santiago fresca è diventata un brodo.
Si intravede qualche palma e si capisce che si stiamo avvicinando alla montagna.
Entriamo nel canyon della Zorra. La strada è tutta curve e giù, appunto, il canyon.
Bella strada. Si si.
Seguiamo le indicazioni per la cascata ed arriviamo al Rancho sole de mayo.
Qui è tutto verde, c’è l’acqua, alberi e palme. Un’oasi. In mezzo al nulla del deserto e del canyon.
“Scusi per la cascata?”
“oh per di lì” ci risponde un signore che sembra robert mitchum “ma dovete parcheggiare il carro qui”
“E’ lontano?”
“No, affatto, cinque minuti!”
Mi avrebbe spaventato sentirgli dire che era ad un “rato” (la famosa unità di tempo indefinita ed indefinibile) ma in realtà non sta scritto da nessuna parte quanto siano cinque minuti. Al passo di chi? Con quale abitudine?

Beh! Comperiamo l’acqua fresca:  se la fanno pagare l’acqua nel deserto! Forse costerebbe meno la tequila.
Ma l’acqua ci serve e ne prendiamo una.
Ci avviamo.
Con le infradito.
Questo ci tengo a specificarlo.
La strada diventa una cosa semi definita larga quanto me, che son larga ma non come strada, in discesa sassi e sabbia. Beh puoi sempre appoggiarti per non cadere o tenerti in equilibrio no?
NO.
Perché da un lato ci sono tutti i cactus del mondo e sterpaglia.
Dall’altra signore e signori: il canyon. La montagna non sembrava così a cinque minuti. Neppure correndo. E, sino a prova contraria, la cascata cade da una montagna. Corretto?
Silenzio. Un silenzio quasi spaventoso.
I nostri passi sono silenziosi perché sono sulla terra che è sabbiosa.
Ogni tanto si sente un rumore tra gli sterpi. Mi sforzo di non pensare ai gomitoli di serpi che ho visto poco prima.
Un’iguana. Piccina e con la coda mozzata.
Ok attraversa e se ne va.
Sinchè non arriviamo ad una sorta di micro terrazza che apre la vista sulla pozza della piccola laguna verde al di sotto di quella che dovrebbe essere la cascata. Che è la cascata nei periodi in cui piove.
Al momento è solo un rivolo d’acqua che scorre tra le rocce.
Ci sono persone a fare il bagno e a schizzarsi facendo gridolini allegri.
E’ lontanissima. E la strada per arrivarci improbabile. Per me, le mie vertigini, il mio equilibrio assente da sempre con carico a coppe di infradito è troppo. Anche perché ammesso di arrivare giù viva poi si tratterebbe anche si risalire.
Quindi è stato con una gioia esplosiva che ho risposto alla galu che mi diceva “non andiamo giù vero? Troppo faticoso, troppo sbatti! E non abbiamo neppure le scarpe da tennis!”  Giusto! Certo! NO, NO torniamo su, sollevata.

La vista delle palme giù nel canyon è davvero singolare.
Torniamo indietro per la sterrata e ci fermiamo a fare qualche foto.
L’unica cosa che manca in macchina è la musica. Ma non sempre.
L’autoradio è stata rubata molto tempo fa e non è mai più stata rimpiazzata.
Tutto sommato il suono del silenzio è gradevole qui. E’ bizzarro come passino dei giorni senza che io ascolti quasi nulla o nulla del tutto.

La strada del ritorno offre visioni ancora diverse con i colori del pomeriggio inoltrato.
A San Jose del Cabo ci fermiamo all’Estèro.
La galu è innamorata di questo posto, del Messico intendo, e ne parla con trasporto e passione.
Mi racconta che questo è l’estuario del fiume e che qui si fermano gli uccelli a fare l’ultima tappa possibile prima di un lungo tragitto senza soste.
E mi racconta di Cortez, di quando è arrivato in Baja California e a San Lucas.
Mi racconta la storia delle Missioni e di come si sono formati i vari stati e le divisioni tra di loro.
Mi mostra l’estuario con le canne, le piante acquatiche, le palme che sa solo il cielo come facciamo a crescere nel mezzo di pozze d’acqua mentre mi racconta di Sir Francis Drake e delle battaglie tra i galeoni inglesi e quelli spagnoli.
Lo fa con il tono accorato di chi appartiene ad un posto e lo sente suo. E vuole sapere tutto. E ne parla con amore. Con la luce negli occhi.
Intorno si sentono i richiami di tanti uccelli diversi. Ne vediamo alcuni ma son di più quelli che si celano.
Nell’acqua è pieno di pesci volanti che creano cerchi che si allargano nell’acqua che è verdissima.
Sta iniziando l’ora del tramonto e le palme di muovono altissime con il vento del mare.

All’orizzonte, quasi a casa, vedo il sole rossissimo inghiottito dall’ultima montagna.

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