sabato 30 giugno 2012

La formica torna a casa + un anno dopo


[data reale del post 26 giugno 2011]
Ultima serata faccia come un pomodoro troppo maturo al Desperado,un locale dove suonano dal vivo e fanno una promozione per la birra. Con 100 pesos – circa 7 euro – ne bevi quante ne vuoi pagandole 1 peso l’una.
Ecco, non so quante ne ho bevute.
Mi sono divertita e sono tornata a casa verso le tre.


Quindi quando alle sette la sveglia ha spezzato il mio sonno e rivelato un mal di testa tipo corona di pugnali mi sono ritrovata un po’ rincoglionita. Qui la chiamano cruda.
Ho scritto qui ma non sono più lì.
Sono da qualche parte sopra l’oceano atlantico da atlanta ad Amsterdam. Per me è circa l’una di notte, ad Amsterdam sono le 9 del mattino. Arriveremo alle 13.

Dicevo a Cabo la chiamano cruda. Ecco ero un po’ cruda.
Una giornata caldissima, troppe valigie, troppe cose, e dividi quello che puoi imbarcare da quello che non puoi.
La galullo che cristona perché sono una consumista ed ho troppa roba, compro troppe cose, ho le mani bucate. Nervosa lei, nervosa la gatta, nervosa io.
Motivi diversi ma coincidenti.
Macchina stracolma di valigie e borse, inès con noi che si terrà Milù e la macchina durante l’assenza della galu.
Guardo il mare, l’arco, i cactus e non riesco a salutarli come vorrei.
Avrei bisogno di lasciar andare l’emozione e questa morsa che sento al cuore.
Guardo il cielo azzurro e mi chiedo quando mai ne rivedrò uno simile.
Cerco di scacciare il pensiero del grigiore della cappa estiva di milano per lasciare gli occhi a catturare le ultime immagini.
Vorrei piangere ma c’è troppa tensione intorno, la mia compresa.

Arriviamo a puffolandia, il terminal dei voli internazionali di Cabo: quattro gates.
Ieri sera ho fatto il check in online ma ho anche ricevuto una mail che diceva che occorreva essere in aeroporto 3 ore prima della partenza.
Quindi alle 10 e 10, precisione svizzera, ero lì.
Al punto Delta arriva un offiSer della seguridad: il check in inizia alle 11.
E allora vaffanculo!
In piedi come una cogliona ad aspettare cosa?
Saluto la galu che rivedrò a Milano e inès. E scoppio a piangere.
Il secondo abbraccio da settimane e settimane.
L’altro ieri sera da Calafia quando mi ha riportata a casa e mi ha salutata.

Piangere da soli in un aeroporto dei puffi, per giunta vuoto, non è di nessuna soddisfazione.
Mentre asciugo i goccioloni l’offiSer di prima arriva a parlare con quella dozzina di persone che, coglione come me, erano lì tre ore prima ,come richiesto.

Inizia con troppe tiritere: que pasa?
Signore, signori devo chiedere a tutti voi un favore.
Ecco, arriva l’inculata.
Abbiamo una situazione di overbooking. 4 persone di troppo.
Allora ci chiedevamo chi di voi sarebbe disposto a spendere un giorno extra in Cabo, tutto pagato resort all inclusive, trasporto e stessi voli per domani.

Nessuno.

Era anche domenica, qualcuno lavorerà pure domani no?
L’offiSer aggiunge 400 dollari per un altro volo Delta.
Maccheè? Mercante in fiera?
Una coppia chiede: ciascuno?
Sì ciascuno.

BRAM! Sei mani si alzano.
Beh totale: hanno dovuto fare la riffa per ridurli a quattro.

Facciamo il check in.
No prima del check in c’è l’ispezione.
L’ispezione?
Si l’ispezione.
Aprono le valigie di TUTTI, le aprono TUTTE, aprono tutte le pochette all’interno e controllano TUTTO.
Vedo la mia roba che vola a destra a manca e mi girano i coglioni.
Come non mi girassero già abbastanza che sto tornando a casa.

Vabbè faccio stoMMinchia di check in e, dopo aver fornito online tutti i dati ieri sera, devo ridarli tutti alla signorina al desk.
Attenzione: tutto questo con il cazzo di sombrero/disco volante che il figlio ha voluto a tutti i costi dal Messico. Domattina ad Amsterdam lo fotografo perché devo tenere una testimonianza dei questo travagliato trasporto.


Mi avvisano che ad Atlanta dovrò raccogliere i bagagli e rifare il check in.
Ossignore! That’s america, folks.

I 4 gate del terminal internazionale sembrano un supermercatino di paese. Tristissimo!
Va bene. L’imbarco è in ritardo.
Ormai sono in piedi da un tempo indefinito ma 2much!
Allora vorrei spendere due parole sul gate che mi han proibito di fotografare.
Accanto alla scritta Puerta 4 c’erano 4 segnali di divieto:
un cellulare
una sigaretta
una fotocamera
un pugnale e una pistola.

Sisi hai letto bene. Un segnale di divieto con un pugnale e una pistola sbarrati.
La porta “di sicurezza” per accedere all’aereo fa tenerezza.
E’ come una doppia porta di un negozio, con le maniglie e una catena con il lucchetto.
E queste poverette che continuano apri, chiudi, chiudi la catena.

Ok imbarcano. Ma … che fanno?
Random, con che criterio lo sa il cielo, uno di quelli che si sta per imbarcare deve lasciare che gli aprano e gli svuotino (letteralmente) i bagagli a mano, farsi passare con il metal detector fatto a paletta dei vigili e togliersi le scarpe o le ciabatte per poterle ispezionare.

Per fortuna questa l’ho scampata.

Anche l’aereo è un po’ dei puffi.
Unica cosa carina ha il wifi (quando saremo in suolo americano).
Guardo le coste e il mare di cortez.
Avrei anche sonno ma non mi viene proprio da dormire.
Poi mi connetto, parlo un po’ con la roby. Quindi chiudo perché la batteria di questo cazzo di computer dura un’ora e uno sputo al massimo.
Il capitano ci avvisa che, per i venti favorevoli, arriveremo ad atlanta mezz’ora prima e che il tempo a terra è gradevole.

Bene.

Guardo fuori e vedo delle nuvole superpanciute, super fluffy dalle forme strane e uno strano tappeto bianco che vira al grigio poco più avanti.
Sento una specie di vuoto nello stomaco, in pieno petto.
Il capitano avvisa che ci sono delle nuvole di pioggia ma ad atlanta il tempo è gradevole.
Che ce lo hai detto a fare?

SVUOOOOOOOOOOOOOOOOSH.

Sembra che stiamo scendendo a picco.
Tutti tirano un urletto, più una specie di singulto, la sorpresa e la sensazione orribile.
L’aereo comincia a ballare in ogni senso e direzione. Mi sento sollevare dalla poltrona, siamo nel nero più nero. Immersi nel nero nel quale ogni tanto brilla, minacciosissimo, un lampo. Vicino. Troppo vicino.
Gli urletti si fanno più corposi e soprattutto uno via l’altro perché non si riesce a stare in una posizione di alcun genere.
Quando l’hostess ha detto “Please don’t panic” mi sono vista morta schiantata. Manco sull’isola di lost con quei due bonazzi, ma in qualche landa della georgia.
Come cazzo ti viene in mente di dire don’t panic quando si è nel panico totale?
Se mi dici di non preoccuparmi io mi preoccupo di più.
E tutti gli altri insieme a me.

Nell’aereo un silenzio di tomba.

Abbiamo attraversato una tempesta. In pieno. Con il vento a 100 km orari. Che non so cosa significhi ma deve essere una brutta cosa perché è stato orribile e spaventevolissimo.
Il fatto è che una volta a terra, e non ti dico l’atterraggio non è finita. Anzi.
Atlanta era sotto una tempesta di quelle della televisione, vento, acqua, robe che volano.
L’aereo sulla pista di atterraggio non riusciva ad andare dritto per tutta l’acqua e il vento.
Quando si è fermato nel bel mezzo del nulla ancora si ballava tanto forte erano acqua e vento.
Intorno l’inferno di acqua e vento. Mulinelli che si sollevavano da terra in vortici di acqua che tutti osservavamo attoniti e decisamente spaventati.
Un annuncio: l’aeroporto è chiuso. Nessun aereo si può muovere, i fingers sono tutti occupati, quindi resteremo qui sino a contrordine.
Sono quelle frasi che ti fanno sentire bene. Come don’t panic.
Il comandante ci ha tenuto a precisare che nessuno perderà le coincidenze poiché tutti gli aerei sono nelle stesse condizioni. Una consolazione direi.

Oggi perdere l’aereo avrebbe un sapore e una condizione completamente diversi da quel che è successo due mesi fa.
Due mesi, son passati due mesi e sto tornando a casa. Ma intanto sono nel bel mezzo di una “storm” americana in piena regola. Ad Atlanta, Georgia.
Non avrei mai pensato che l’acqua potesse far così paura. Da noi non lo fa, non lo ha mai fatto.
Le piste sono piene di aerei, come il nostro, fermi in mezzo al nulla aspettando nuove indicazioni.
L’acqua e il vento ci fanno ballare incessantemente. Una sensazione davvero sgradevole.
Intanto mi chiedo, con lo spavento che ho preso, come farò a prendere un aereo da Atlanta ad Amsterdam e ancora da Amsterdam a Milano.

E’ passato quanto? Una vita? E il comandante ci dice che stanno liberando un finger per farci sbarcare, ma dobbiamo fare in fretta, sbarcare velocemente perché ci sono moltissimi aerei che attendono di sbarcare i passeggeri e, con gioia, ci comunica che tutti gli aerei sono in orario.

IN ORARIO?? Come in orario? Quindi mi perdo la coincidenza? Scusa prima l’aeroporto era chiuso e ora è tutto in orario? Quindi dobbiamo sbarcare alla velocità della luce e correre a vedere che ne è della coincidenza?
Mancano 2 ore alla partenza del mio volo per Amsterdam ma, memore di quel che è successo a Detroit, mi sembrano insufficienti. E poi c’è quel piccolo particolare del bagaglio e del nuovo check in.
 
Scendo al volo dall’aereo, vado al nastro dei bagagli, aspetto che faccia dodicimilionidigiri ma le mie valigie non le vedo. L’aeroporto è nel caos totale, controllato, efficiente, ma le persone hanno tutte l’aria scossa.
Le valigie sono bagnatissime, ma le mie non si vedono.
Chiedo ad un offiSer se i bagagli son tutti qui. Sì quelli del volo da Los Cabos sono finiti.
Occazzo. Vado allo sportello Delta. Ma noooooooo ma’Am, non deve spostare i bagagli, li abbiamo già spostati noi.

Ma a Los Cabos mi han detto …. No ok. Non importa. Sombrero sotto il braccio, bagaglio a mano e le due bottigliette di tequila nel sacchetto dell’aeroporto messicano.
Ho detto che ho comperato due bottiglie piccole di tequila all’aeroporto? Non mi ricordo.
Comunque all’aeroporto dei puffi ho comperato la tequila dei puffi.

Ecco, al controllo bagagli – mica speravi di evitarlo vero? – mi dicono che non posso imbarcare le bottiglie di liquido. Ma le ho comperate all’aeroporto, dopo il gate di controllo, e …..
Ma’Am non si possono imbarcare liquidi indipendentemente da dove li ha acquistati.
E allora dillo! Ce l’hai con me.
Faccio un pensierino sullo scolarmi le due puffBottiglie di tequila. Invece chiedo, e quindi? Che devo fare?

Deve andare allo sportello Delta e farle imbarcare come bagaglio in stiva. Eh? Due puffbottiglie in stiva?
Sì, oppure le lascia.
Eh no! Come le lascio? Le ho comperate da poche ore.
Madonnastiamericani!

Vado allo sportello Delta dove due ragazzone nere e sorridenti mi chiedono come possono aiutarmi.
Mi sento cretina mostrando le due puffbottiglie di tequila. E spiego che non me le lasciano portare a bordo.
Eh no ma’Am non si possono portare liquidi di alcun tipo in aereo, neppure se acquistati in aeroporto. Sì, diciamo che adesso questo l’ho capito.
Come posso fare?
Mi dicono che possono impacchettare in qualche modo le due bottiglie ed imbarcarle in stiva ma che, purtroppo, non possono garantire sul fatto che arriveranno. Esulano dall’assicurazione eccetera eccetera.
Una delle ragazzone mi guarda e vede gli occhioni tristi. Quindi si sbatte per costruire, sì hai letto bene costruire, una scatola per le mie due bottigliette.
Ho voglia di regalarle a loro per come si stanno dando da fare. E glielo dico.
Ragazze se volete prenderle voi bevetele alla mia salute. Lo preferisco al fatto che qualcuno possa trafugarle. Perse per perse preferisco le abbiate voi.

Mi sorridono. No ma’Am, adesso facciamo una scatola perfetta e vedrà che la troverà al suo arrivo a …. Milano? Italia? Wow! Bella Italia, con un accento alla Louis Armstrong. Mi fanno sorridere, nonostante la tensione della tempesta e del prossimo volo che, diciamolo, un po’ di ansia adesso me la mette.
Le ringrazio infinitamente e ritorno al controllo bagagli. Sempre con il sombrero arrotolato sotto al braccio. Giuro che se poi mio figlio non se lo mette e non lo usa glielo faccio mangiare! (per la cronaca le puffbottiglie sono arrivate insieme ai miei bagagli a Malpensa)

Mi sciroppo un paio di file, un paio di sfilatilescarpe rimettitilescarpe, fai il bodyscan, fai passare i bagagli sul nastro, sì anche il sombrero. Ma-Am cosa c’è dentro al sombrero?
Cosa c’è dentro al sombrero? Ah sì il mio cappello messicano, quello che ho tenuto ogni giorno degli ultimi due mesi. Un’altra delle cose che in valigia non ci stava.
Possiamo vedere?
No, come possiamo vedere? Devo svoltolare il sombrero, farvi vedere l’altro sombrero e poi richiudere? Non ce la posso fare. E’ stata un’impresa titanica arrotolare quel sombrero con dentro il sombrero (io l’ho detto dal primo momento che il cappello normale non si dovrebbe chiamare sombrero ma vabbe’ …)
Adesso devo svoltolarlo? Non riuscirò mai più a rimetterlo come prima.
Svoltoliamo, ok va bene, operazione riarrotola il sombrero farcito di sombrero. Non è proprio come a Cabo. Infatti prima di arrivare a casa il cappello piccolo mi scivolerà fuori dal sombrero grandissimo più e più volte.

Ok. Controlli passati, cerchiamo il gate.
Il gate è lo stesso di quando ho fatto Atlanta-Cabo. Allora aveva l’aria allegra della terra del sud. Oggi mi pare infinitamente triste.
Ha smesso di piovere. E tutte le attività sulle piste ed intorno riprendono come se niente fosse.
Anche qui controlli random sui bagagli a mano, le scarpe, le ciabatte. Scampo anche questa. Meglio. Non ce la potevo fare a riarrotolare il sombrero e risistemare il bagaglio nello zainone.
Questa volta mi son scelta il posto sapendo com’era fatto l’aereo. Sono affacciata sul corridoio quindi posso allungare le gambe di traverso.
Gli orari sono un’opinione. Qui il fuso e di due ore rispetto a Cabo. E andiamo a perdere sei ore durante il viaggio verso Amsterdam.
Per il mio orologio biologico viaggeremo tutta la notte arrivando in olanda alle 7 del mattino. Nella mia percezione. In realtà saranno le 13.

In aereo ci danno la cena e ci chiedono di chiudere tutti gli oblò.  L’aereo rimarrà tutto il volo con le luci notturne, quindi quasi inesistenti. Io non ce la faccio a dormire. Un po’ per lo spavento del volo precedente al quale cerco di non pensare e un po’ perché sto tornando a casa.

Casa. Cosa vuol dire casa? Ecco appunto cosa vuol dire? E cosa vorrà dire tornare a casa oggi, domani … sono un po’ confusa sulle date e le ore.
Non ne ho voglia. Di tornare a casa. Avrei avuto ancora tanto da fare in Messico. Non ero ancora stanca, non avevo nostalgia. Ce l’ho adesso, eppure l’ho lasciato da un pugno di ore.
Sento la musica e mi vien da piangere. Mi sento piccola e sola.
Gli oblò chiusi fan tristezza e  danno una sensazione di imprigionamento.
Verso le 6 del mattino (ora americana) ce li fanno aprire e ci danno la colazione. Tra un’ora saremo ad Amsterdam. Qui il sole è quello del mezzogiorno estivo.

Chissà perché i viaggi di ritorno sono sempre così lunghi e stancanti? Credo però dipenda sempre da dove si arriva e dove si ritorna.

L’aeroporto di Amsterdam è bellissimo ma non ho la forza di guardarlo, di fotografare, di incamerare immagini e informazioni. Ne ho tante che mi scorrono ovunque, dagli occhi alle vene.
Le prossime ore saranno di impatto con l’europa e quindi con l’Italia.
Traumaticamente. Non sono mai stata via così tanto in tutta la mia vita. E non è stato difficile star lontano quanto ritornare.

Arrivo e non c’è nessuno ad aspettarmi. Lo sapevo. Ma questo non lo rende meno triste.
Malpensa Express. Lungo, troppo lungo. Fa caldo, sono stanca e adesso non vedo l’ora che questo viaggio finisca. Di posarmi in un posto senza dover trasbordare, portare bagagli, fare controlli.
Chiamo casa. Avviso quando arriverò con il taxi da cadorna e verranno ad aiutarmi con i bagagli.
Eccomi. Son qui. Son tornata.

Fine.


30 giugno 2012: c’è voluto un anno intero per trovare la forza di pubblicare la fine del mio viaggio in Messico. E’ come se me ne fossi dimenticata. Come se lo avessi voluto dimenticare.
Lasciare tutto sospeso con Mercedes Sosa, quell’energia positiva che avevo ancora scrivendo da quella terra incredibile.
E’ successo di tutto in questo anno. Mi son separata da mio marito, mi son separata da tante cose materiali. Alcune con facilità, leggerezza. Altre con un peso immenso.
Oggi rileggere quello che ho scritto un anno fa sotto lo sguardo inquisitorio di Milù fa una dolorosa tenerezza.

Ma soprattutto ho trovato me.
Dopo tanto vagare, tanto cercare: ho trovato me.
Ho trovato il mio carpe diem.
Ho ritrovato la voglia di far progetti anche a lungo termine perché se la vita deve finire domani lo farà comunque. E morire senza un progetto è tanto peggio di morire senza averne avuto uno. Anche se incompiuto o irrealizzato.

Riletto oggi qui, nel caldo dell’anticiclone Caronte – ma checazzodinomeè? – a casa sola per i prossimi tre mesi. Filippo è in Calabria a lavorare da quasi un mese, ormai.
E’ successo di tutto in quest’anno. Di bello, di brutto. Di orribile.
Di meraviglioso ancora no. Solo qualche fugacissimo attimo troppo veloce per riuscire a fermarlo abbastanza da assorbire la meraviglia dalla pelle, dai pori.
Ho perso tante cose e tante persone per la strada. Le ho lasciate andare e loro lo hanno fatto.
Mi son resa conto che avevo male alle braccia tanta era la forza di cercar di tenere tutto insieme, di trattenere cose, persone, situazioni.

Dopo un anno sono diventata una persona solitaria. Non la sono mai stata ma la sono diventata.
Ho le spalle appesantite da responsabilità che ora sono solo e soltanto mie. E si sentono schiacciare, qualche giorno tolgono il fiato.

La speranza che mi aveva colta in Messico all’annuncio della vittoria di Pisapia a Milano si è miseramente accasciata con l’avvento del governo Monti, della Fornero. In questi giorni si stanno decidendo le sorti dell’Europa. Italia, Grecia, Spagna sono strette in una morsa di crisi che letteralmente uccide le persone.
I suicidi per mancanza di danaro, di lavoro, di prospettiva sono all’ordine del giorno.
Quello che trovo terribile, ogni giorno di più, è che la gente non sorride più. Ci siamo fatti scippare i sorrisi.
Sono tutti incazzati, svuotati, delusi. Morti. Nessuno reagisce più a niente come si dovrebbe.
Le donne vengono ammazzate su base quasi quotidiana dai mariti, dai compagni, dagli ex.
I processi hanno epiloghi scandalosi.
C’è stato un terremoto in Emilia che l’ha messa in ginocchio. Tanti crolli, tanti morti.
Non c’è lavoro.
 
Io ho inventato laformica Noir. E mi sono cimentata in cose mai neppure immaginate prima, costruire un sito dal nulla, creare una sorta di comunicazione, vendere, vendermi.
Farmi da agente, da procuratore e da prodotto.
Ho trovato delle location meravigliose. Ho lavorato in posti magici.
Ora c’è un momento stagnante che dura da un po’ troppo. Tre mesi che non faccio nulla.
Forse a luglio qualcosa si muoverà. Ho una data certa e due opzionate.

Ho imparato a far da sola. A pensare tutto da me. Scoprendo che si può fare. E’ faticoso, talvolta tanto da piangere, ma si può fare.
Ho imparato a pitturare i mobili, in occasione della mia entrata ufficiale nel buddismo. Ho imparato ad usare il trapano e la smerigliatrice. Ho imparato a stendere la foglia d’oro (in tutta onestà non benissimo ma fingo che sia un effetto voluto).
Ho perso 22 chili con una dieta per il mio metabolismo.
Ho ritrovato l’idea di femminilità.
Ho comperato dei vestiti, dopo trent’anni che non ne indossavo uno.
Scopro e mostro le gambe, metto i tacchi.

Non ho ancora trovato l’amore. Neppure quello fisico, quello di qualche attimo o qualche ora.
Sono ancora orfana di mani e di baci.
Ho qualcuno in mente ma sono alla finestra.
 
Mio figlio sta diventando un uomo meraviglioso. Ha perduto quella “bambinezza” fastidiosa per diventare un giovane uomo responsabile, attento, premuroso. Restando simpatico e brillante.
Ha le note in testa e compone musica per orchestra che mi entra dritta nel cuore.
 
Ho rafforzato alcune, poche, vecchie amicizie, ne ho trovate alcune, poche, nuove. Ma sono salde.
Hanno una caratteristica di solidità, di presenza, di costanza che mi serviva.
E’ questo il significato di “pochi ma buoni”?

Ho scoperto la solidarietà. Quella vera. Quella delicata.
Mi son trovata ad osservare gli altri che fanno cose per me che mai nella vita avrei pensato possibile.
E mi ha stupita e mi ha fatta sentire la donna più amata del mondo.

Nelle terribili difficoltà in cui mi trovo ogni giorno qualcuno, qualcosa riesce a stupirmi.
Con un pensiero, una attenzione, una più sostanziosa e materiale “mano” in ogni senso.
Ho trovato la reciprocità. Dare e avere. Ho imparato a chiedere ed ho imparato a prendere. Ho imparato ad accettare.
 
Domani? E chi lo sa?

 Domani è  un altro giorno, si vedrà (Ornella Vanoni)